Missionario itinerante per indole e vocazione, ma soprattutto per il grande desiderio di essere sempre  in contatto con i suoi  fedeli sparsi in parecchie tribù dell’India a distanza di centinaia di Kilometri una dall’altra, ma anche per il continuo tentativo di evangelizzarne delle nuove.

 

Il nome di don Bosco e dei salesiani è entrato molto presto  nella  vita  di  Oreste probabilmente come lui stesso afferma “prima ancora che nascessi.” La mamma Agostina Montaldo, infatti,  partecipa da giovane alla sepoltura di don Bosco e divenuta sposa del signor Lorenzo delle Cecche offre in seguito tre vocazioni religiose sui cinque figli avuti: oltre ad Oreste, Giuseppe, divenuto sacerdote diocesano, Maria Agnese entrata tra le suore della carità di Santa Maria Antida Thouret, Natale , Cesare e la sorellastra Maria felicemente sposati.

 


Mons. Oreste Marenco con i coscritti
 

La grande ammirazione per i salesiani del parroco dell’epoca, mons. Falletti e la presenza a Diano delle  Figlie di Maria Ausiliatrice, Congregazione fondata da don Bosco, contribuirono in modo determinante alla  vocazione di Oreste. Afferma: “ Conservo tuttora un caro ricordo della mia prima maestra, suor Caterina Zannone, penso che la mia vocazione salesiana e missionaria sia dovuta in gran parte a questa grande educatrice. Grazie   all’interessamento del parroco, Oreste continuò gli studi a Torino e nel 1923 partì per Bombay, proseguendo per Shillong dove vi fu il primo duro impatto con la realtà indiana. Proseguì la formazione in vari centri diocesani dell’India compiendo nel frattempo molti servizi pratici e teologici.La consacrazione sacerdotale avvenne il 3 aprile 1932. Singolare i ricordi della sua prima messa avvenuta in un villaggio a 10  Km. di distanza da Shillong in cima ad una ripida salita da raggiungere a piedi :”Avevo raccomandato al chierico di fare attenzione che nella cassetta dell’altare ci fosse tutto il necessario, soprattutto il messale, ma giunti al villaggio costatammo che mancava proprio il messale. Il chierico dovette tornare a Shillong e pregare un confratello di portarmi su il messale. Cercai di riempire la lunga attesa, circa quattro  ore visitando e benedicendo le capanne del  villaggio. Era molto tardi quando finalmente potei iniziare la celebrazione eucaristica e avevo la gola secca…ma non era lecito sorbire neppure una goccia d’acqua. Dovetti accontentarmi di risciacquare il viso, poi celebrai e feci la mia prima predica ai fedeli”.

La prima destinazione dopo l’ordinazione fu Gauhati, che comprendeva una vasta zona nella vallata del Brahmaputra   su un’area di 28.000 Kmq. circa. Le tribù  Adibasi erano sparse in villaggi e nei giardini di tè distanti  15 - 20 Km uno dall’altro.La maggioranza degli spostamenti era a piedi, raramente gli veniva messo a disposizione un carro trainato da buoi o da bufali. La popolazione mostrava di gradire molto il passaggio di don Oreste e via via lo attendevano con rinnovato interesse; afferma “Essi erano convinti che io sapessi tutto e potessi perciò rispondere a ogni loro domanda, se avevo tempo gradivano molto che io mi recassi a visitare ogni capanna per recitare insieme qualche preghiera e benedire tutta la famiglia, ma il mattino seguente, dopo  la messa dovevo ripartire per visitare un altro villaggio e un’altra visita agli stessi villaggi non avrei potuto  compierla prima di 4 – 6 mesi”. In  ogni villaggio veniva costruita una cappella in bambù e nominato un catechista locale che cercava in ogni modo di divulgare gli insegnamenti di don Oreste. I risultati si moltiplicano , la passione e la dedizione è totale poiché ogni giro apostolico eseguito c’è la possibilità di scoprire un nuovo villaggio da evangelizzare ed afferma “ Queste scoperte mi riempiono il cuore di gioia”. Le avventure negli spostamenti o nei villaggi sono all’ordine del giorno : “ Un giorno in occasione di una – mela - (fiera) faceva servizio una specie di corriera e decisi di servirmene  pensando che sarei giunto senz’altro  più presto al villaggio  dove ero atteso. Senonchè l’auto, invece di partire al mattino come era stabilito, partì alla sera , e mi scaricò alle 11 di notte in piena foresta  su un sentiero che attraverso la giungla mi avrebbe portato al villaggio. Mi accompagnava un ragazzo e oltre all’altarino portatile avevamo il necessario per dormire , una cassa di medicinali e diversi oggetti religiosi. Il villaggio distava appena tre Km , ma era buio e faceva piuttosto freddo, il tutto accompagnato da una fastidiosa pioggerella che penetrava nella ossa.Marciammo per un’ora e naturalmente sbagliammo strada per cui dopo tanto faticare ci trovammo smarriti e inzuppati in piena foresta.” Arrivarono al villaggio a notte fonda, ma avevano abbandonato i bagagli nella foresta per cui c’era la necessità di svegliare il Catechista del villaggio  per tentare di recuperarli. Nuovamente di ritorno, stanchissimo don Oreste stava per avviarsi verso la Cappella nella quale aveva una specie di bugigattolo per dormire,separato dall’altare da un graticcio  in bambu’ quando il Catechista disse allarmato: “E’ pericoloso,Padre dormire là. Quando piove e fa freddo un grosso orso ha preso l’abitudine di rifugiarsi a dormire proprio sotto il palchetto dove dormi tu.” Don Oreste non avendo più la forza di controbattere si accampò volentieri tra le capre di una vicina capanna, ma dopo poco tempo già sveglio per la celebrazione della S.Messa constatò le impronte inconfondibili dell’orso che aveva dormito al posto suo.

Con enorme dispiacere  dovette lasciare le sue tribù per un nuovo incarico nella missione di Dibrugarh dove l’estensione  dei territori e la mole del lavoro da  svolgere appariva ancora maggiore. Ricorda.”Per comprendere meglio le difficoltà di questi viaggi, dirò ad esempio che per visitare un gruppo di fedeli dovevo viaggiare una notte in treno,una giornata di battello sul fiume,poi nuovamente tutto il giorno su di un battello più piccolo,poi quattro ore di corriera.Ma non era ancora finito! Mi restavano 12 km. a piedi per arrivare al villaggio dove generalmente stabilivo il mio quartier generale per visitare la altre comunità sparse nella zona.”  Dopo due anni di permanenza in questa zona in sostituzione di un collega missionario polacco fu  possibile far ritorno a Gauhati  dove si ripropose di evangelizzare la zona di Tezpur di etnia Boro. Grandissimo l’entusiasmo e l’apprezzamento di quel popolo per il ritorno di don Oreste. Scoppiò in quegli anni (1935 – 1936) una grande epidemia di colera ed in tutti i villaggi molte persone stavano morendo al punto che alcuni erano già totalmente abbandonati. Arrivò un giorno una delegazione dal villaggio di Bosco Berha molto turbati ed in cerca di aiuto. Don Oreste diede loro qualche medicina già sapendo che purtroppo sarebbero state insufficienti, “ma poi, ricordando Don Bosco, durante il colera che infieriva a Torino, aveva distribuito ai suoi ragazzi una medaglietta di Maria Ausiliatrice, ne diedi un buon numero anche a loro, raccomandando  di distribuirle a tutti gli abitanti del villaggio.Non molto tempo dopo potei effettuare un giro in quella zona.In molti villaggi gli abitanti erano stati più che decimati, altri erano stati completamente evacuati, ma nessuno di Bosco Berha era stato colpito dall’epidemia.

Con molta semplicità ed umiltà racconta fatti ed avvenimenti che danno invece l’effettiva sensazione del miracolo.”Ero andato a visitare una vastissima piantagione da tè ai piedi delle montagne del Bhutan.Una domenica, mentre distribuivo la Comunione, un’Ostia mi sfuggì dalle dita. Mi fermai per raccoglierla e anche le persone vicine mi aiutarono a cercarla, ma l’Ostia era introvabile…….Forse mi sono sbagliato pensai, oppure l’Ostia è caduta nella pisside che tenevo in mano e continuai la celebrazione della Messa. Il mattino seguente gli operai dovevano tornare al lavoro, e io celebrai molto presto. Terminata la Messa, mentre stavo riponendo i paramenti, alcuni ragazzi vengono a dirmi con lo stupore sul volto. “Padre c’è l’Ostia sul pavimento!”. Immaginarsi la mia meraviglia….Era rimasta tutto il giorno e la notte per terra e sarebbe rimasta così per almeno tre o quattro mesi, fino alla prossima visita! Ma come si era potuta nascondere , se avevamo guardato accuratamente dappertutto!? Pregai uno dei ragazzi di fare una seconda comunione e intanto posai  l’Ostia sull’altare. Proprio in quel momento entrò una giovane donna e mi disse:”  Padre, ieri non mi è stato possibile venire in Chiesa per la Messa. Come sai abitiamo molto lontano, e avendo mandato mio marito e i figli, ho dovuto restarmene a custodire la casa. Stamattina mi sono affrettata per giungere in tempo alla Messa e fare la Comunione , ma vedo che ho fatto troppo tardi. Dammi almeno l’assoluzione!”. Non solo potei confessarla, ma anche darle quella sacra Particola che, sfuggitami dalle mani, era misteriosamente scomparsa e ritrovata pochi momenti prima. Pura e fortunata coincidenza? O il Signore si era di proposito nascosto in attesa di quell’anima che aveva un così vivo desiderio di riceverlo?”

 
Negli anni 1935 – 1936 Don Oreste Marengo è direttore della Scuola don Bosco di Gauhati e responsabile del relativo centro  missionario, ma i due incarichi sono veramente incompatibili per l’enorme mole di lavoro da svolgere. Con grande felicità accolse  l’arrivo di don Alessi  chiamato da Tezpur per reggere l’opera salesiana lasciando a don Oreste la possibilità di dedicarsi ai cristiani delle lontane tribù. Le avventure negli spostamenti non piegano la grande volontà di raggiungere i suoi fedeli:”Nei miei viaggi, quasi tutti  fatti a piedi, mi sono imbattuto in animali pericolosi  di ogni specie: elefanti, tigri, leopardi, orsi, serpenti,cobra e pitoni, ma posso assicurare che nessuno di essi è più avido  di sangue quanto le zanzare, le cimici e le sanguisughe….”.Anche le tribù non  aventi fede  cristiana erano molto rispettose nei confronti di don Oreste.

“Un giorno passai per Dumbajar, un grosso villaggio di fede luterana che si guardavano bene dal lasciarsi avvicinare.Una giovane madre con un bimbetto tra le braccia, però, mi sbarrò il passo implorandomi: Padre,la gente dice che questo bambino è diventato cieco per colpa dei miei peccati. Sarò certo  una peccatrice, ma non ho coscienza di aver commesso una colpa così grave da meritare un castigo così terribile!, e cominciò a piangere sommessamente.Cercai di consolarla; si chinò  fino a toccarmi i piedi in segno di venerazione e tornò sui suoi passi”.Le avventure sono all’ordine del giorno:” Una volta, dopo aver trascorso la notte al centro della riserva forestale di Kachugaon, la più estesa di tutta l’India, attraversai il fiume Hel su di un carrello, ma giunto sull’altra sponda uno spettacolo incredibile mi si parò davanti. Tutta la zona era un mare d’acqua ed era proprio là che dovevo recarmi per  visitare un villaggio Boro dove  mi avevano mandato a chiamare per risolvere alcune controversie sorte tra loro e i pagani. L’acqua mi arrivava alla cintola e decisi che dovevamo tentare egualmente. Al calar del giorno giungemmo in un villaggio di una sottotribù dei Santali, mi ripulii alla meglio ed accettai il tradizionale piatto di riso.Ero veramente spossato, per cui, stesa la rete che portavo sempre con me per proteggermi dalle zanzare, mi buttai sul letto di corde che mi era stato preparato.Avrò dormito circa mezz’ora quando venni svegliato da un pungente prurito in tutto il corpo.Balzai dal letto e vidi un esercito di cimici rosse che passeggiavano sul lenzuolo e sulla zanzariera. Mi coricai quindi sulla nuda terra e finalmente mi addormentai. Da quella notte ho sempre avuto ripugnanza per i letti di corda”.

Le enormi difficoltà  incontrate quotidianamente non potevano non lasciare traccia . Un attacco di malaria colpì infatti don Oreste proprio al termine di tutte le visite alla varie comunità quando stava per far ritorno a Gauhati.Giuntovi sfinito per la febbre  trovò un telegramma dell’ispettore don Scuderi che lo invitava a raggiungerlo subito a Calcutta.Con gli attacchi febbrili in aumento partì per Calcutta dove apprese con enorme disappunto l’ordine di lasciare la missione ed occuparsi dell’insegnamento ai novizi italiani. Ricorda: “A quel tempo non esisteva il dialogo….a me non rimase altro che piegare il capo ed accettare quell’obbedienza così diversa dall’apostolato al quale mi ero consacrato”.

Ricorda però don Bacchiarello:” Toglierlo dalla missione era l’unica maniera per salvarlo.Quando arrivò  era ridotto a uno spettro. Abbandonare la sua attività per fare il maestro dei novizi fu certo un grande sacrificio per lui, ma solo così don Scuderi riuscì a impedirgli che cadesse sfinito sul campo di lavoro.

Per circa 10anni don Oreste si occupò della scuola,ma lo scoppio della seconda guerra mondiale  ne provocò la chiusura per mancanza di novizi provenienti dall’Italia. Grandissima la felicità di don Marengo nel ritornare alle missioni e si ripropone nel 1946 di esplorare  le tribù Mikir. Con grande spirito di sacrificio studia le loro lingue, totalmente diverse da un villaggio all’altro, cerca di comprenderne la mentalità, li aiuta con medicine e riesce anche a stampare un catechismo e un libro di preghiere nella loro lingua.

Nel 1951, predicando in un corso effettuato alle suore di Maria Ausiliatrice, venne salutato con inspiegabile entusiasmo e molti nel riverirlo lo chiamavano Monsignore.”Tutti credevano che fossi al corrente della nomina e l’avessi tenuta nascosta, mentre io ero all’oscuro di tutto.Mi girava la testa e le gambe non mi reggevano. La lettera del Delegato apostolico,seppure inviata, non l’avevo mai ricevuta e ora la mia situazione era imbarazzante.Sentivo  solo di non poter accettare, ma non avevo la minima idea di come muovermi in quel frangente”. La nomina a  Vescovo di Dibrugarh venne in seguito ufficializzata,  ma Don Oreste non diede il proprio consenso supplicando il Delegato apostolico di  cercare di convincere del rifiuto i  superiori di Torino e di Roma. Dopo quattro mesi di costanti insistenze e di angosciosi dinieghi Don Oreste per rispetto ed obbedienza accettò la Consacrazione Episcopale. “Giunsi a Torino la vigilia della festa dell’Immacolata, buon auspicio certamente, e mi recai poi  per qualche giorno a Diano tra i miei compaesani, soprattutto con la mia carissima vecchia mamma e i fratelli, che rivedevo dopo 28 anni, e diversi nipoti, che vedevo per la prima volta: tutti esultanti e commossi per il grande avvenimento. Fui ordinato Vescovo il 27 dicembre 1951 nella basilica di Maria Ausiliatrice a Torino. Oltre ai miei cari, era presente anche la mia antica maestra di Diano, suor Caterina Zannone, di 80 anni, venuta espressamente da Napoli.”

Nominato Vescovo di Dibrugarh Monsignor Oreste Marengo  sentiva ora ancor più l’impegno nel risolvere il difficile problema di inviare missionari, ma oltre agli scarsi mezzi finanziari si presenta ancor più carente la disponibilità di personale.Con grande piacere si deve quindi prendere cura in prima persona della vasta regione del Manipur. L’ardore per l’apostolato per portare a Cristo le tribù affidate alle sue cure, lo spinge sempre alla conquista di nuove posizioni anche con lo studio di due nuove lingue ( oltre alla dozzina di lingue già conosciute) per raggiungere due tribù localizzate sulla frontiera orientale assamese. Attraversando torrenti impetuosi, dense foreste e scalando alte montagne  Monsignor Marengo accompagnato da Don Ravalico raggiunge le nuove tribù dove fece il primo discorso in lingua Lotha. “Impossibile descrivere l’accoglienza della folla accorsa ad incontrarci. Quella povera gente aveva atteso per anni l’arrivo di un sacerdote cattolico; per questo la loro allegria e il loro entusiasmo erano al colmo.Avevano costruito una spaziosa capanna in legno e paglia che divenne subito la Chiesa. Era venuto a trovarmi anche l’anziano capo del villaggio che mi disse di non essere cristiano, ma di rispettare le volontà della sua gente. Grandissima la gioia quando tre anni più tardi si fece cattolico”. In ogni villaggio la bontà, l’entusiasmo e la fede di Monsignor Marengo lasciano una profonda traccia:”A volte non riuscivo a trattenere le lacrime celebrando in una comunità che tre o quattro anni prima era ancora pagana e ora sapeva cantare e pregare con devozione, partecipando alle celebrazioni liturgiche con la fede e il fervore dei primi cristiani”.

Con grande spirito di sacrificio e grazie agli aiuti economici in arrivo non solo dall’Italia Monsignor Marengo riesce a compiere opere grandiose acquistando terreni  in punti strategici e costruendo chiese, scuole  o case famiglie in grado comunque di accogliere solo una piccola parte delle numerose richieste. Ma le sue preoccupazioni maggiori, come scrive don Ravalico, non sono le costruzioni materiali, pur così necessarie, quanto piuttosto l’espansione apostolica , movente principale di ogni sua attività, l’assillo quotidiano della sua anima apostolica ardente di zelo.Se da un lato vi era molto entusiasmo tra la popolazione dall’altro spesso vi era ostilità da parte del capo del villaggio.”In una tribù del Nagaland subii l’unica violenza della mia vita missionaria.Il capo del villaggio ci aveva proibito di proiettare film religiosi all’aperto. Ma due giovani cattolici ci invitarono a proiettarli nella loro casa, alla presenza di diversi loro amici.Appena iniziata la proiezione arrivarono quattro o cinque energumeni che fracassarono cose e persone.Qualcuno intanto aveva avvertito la polizia, ma non volli sporgere denuncia  con grande sorpresa dell’Ispettore impressionato dalla nostra generosità. Chi dovette masticare amaro fu l’autorevole pastore, responsabile del fattaccio: fu biasimato da tutti i villaggi Marioli della zona e molti si avvicinarono a noi per conoscere meglio la religione cattolica. Non molto tempo dopo potei ripagare quel pastore raccomandando una sua figlia perché fosse accettata al Collegio santa Maria di Shillong.Di fondamentale importanza la presenza accanto all’opera di Monsignor Marengo delle suore missionarie di varie congregazioni impegnate anche nell’assistenza infermieristica spesso anche con responsabilità di complessi ospedalieri. Due o tre volte all’anno il Vescovo compie visite agli ammalati degli ospedali, fermandosi a parlare con ciascuno di loro, con grande felicità dei dottori che notano un grande benessere generale ad ogni suo passaggio. Conoscendo parecchie lingue e dialetti il suo passaggio era a volte l’unico modo di comunicare con i malati. Estremamente attive le suore missionarie di Maria Ausiliatrice poterono acquistare un appezzamento di terreno adiacente la missione ed iniziarono la costruzione di una scuola. Quando questa era già avanzata ed era già costata una forte somma il continuo innalzamento del livello del fiume Brahmaputra stava mettendo in pericolo l’intera città. L’erosione della sponda cominciò ad inghiottire i più bei palazzi e il governatore pensava di evacuare la città. Le suore erano molto preoccupate .Si presentarono a Monsignor Marengo pregandolo di scrivere a Padre Pio richiedendogli se dovevano o no continuare a costruire.”Scrissi immediatamente a Padre Pio presentando la situazione di Dibrugarh.Ricevetti un  breve scritto : DICA ALLE SUORE DI CONTINUARE A LAVORARE CON ZELO PER LA GLORIA DI DIO E DI NON AVER ALCUN TIMORE PERCHE’ IL GOVERNO COSTRUIRA’ UNA NUOVA DIFESA E SALVERA’ LA CITTA’.Subito dopo il primo ministro  visitò la città e consultò diversi esperti indiani e stranieri che proposero diverse soluzioni. Fu costruito un solido frangiflutti con grossi macigni che dalla sponda del fiume penetrano verso il centro per oltre cento metri salvando la città e realizzando la profezia di padre Pio.

A Roma, all’inizio degli anni ’70, si stava prospettando un nuovo importante progetto: la formazione della nuova diocesi di Tura. Pur insistendo sull’opportunità di lasciare spazio ai numerosi allievi di cittadinanza indiana Mons. Marengo sapeva che nessuno di essi aveva la possibilità di reperire i mezzi necessari. Rispose “Sono salesiano e ritengo mio dovere aderire al  desiderio dei miei superiori”  Come  cinque anni prima si ritrovò a scrivere del cambiamento ai suoi benefattori invitandoli a continuare a sostenere le diocesi di Dibrugarh e Tezpur  e, ove possibile, anche la nuova missione di Tura.Nonostante le condizioni fisiche non eccellenti, con continui attacchi di malaria, i primi accenni di flebite ed un’ernia piuttosto grave mons. Marengo parte per Tura il 21 luglio 1972 instaurando la nuova diocesi poco dopo la fine delle ostilità tra India e Pakistan. Le condizioni della popolazione erano pessime: c'erano molti campi profughi, 9 milioni di rifugiati e povertà ovunque. Si decise di aiutare indifferentemente chiunque chiedesse aiuto; mons. Marengo non risparmiò energie, dedicando tutto se stesso, oltre le sue stesse possibilità fisiche.

Ciò che maggiormente lo sconvolse  fu l'enorme quantità di ciechi presenti a Tura  ed in tutta la zona della nuova diocesi. Da subito convinto che  le cause di tale deficit potessero essere ricercate sia nei matrimoni tra consanguinei, sia nelle carenze alimentari, sia nelle pessime condizioni igienico-sanitarie, Mons. Marengo cercò di aiutare in ogni modo i bisognosi ed insistette  per la diffusione dell'istruzione in tutta la popolazione aprendo numerose scuole e si adoperò per la creazione di lavori sociali, per rendere autosufficienti le famiglie. Per un’azione più capillare sul territorio inaugurò nei cinque anni di permanenza a Tura una decina di centri salesiani  con relative chiese e strutture di supporto.

Non appena intuì che le condizioni erano mature per  lasciar spazio ad un missionario indiano presentò le proprie dimissioni in data 2 gennaio 1978. Nuovo vescovo di Tura venne nominato don Giorgio Mamalassery che lo volle però al suo fianco in qualità di procuratore. Nel 1980, quando giudica la sua presenza a Tura non più indispensabile si trasferisce nel centro salesiano di Mendal, uno dei più vasti e bisognosi della zona, comprendente oltre 20 comunità cristiane. Dopo aver costruito dal nulla tre diocesi di cui ne è stato il primo Vescovo ritorna alla sua vera passione di semplice missionario. Estremamente umile ha sempre accettato incarichi autorevoli con la sola consapevolezza che essi erano assolutamente necessari per raggiungere i suoi scopi. Diversi disturbi fisici gli procurano notevoli sofferenze che lo costringono a letto per brevi periodi. Ogni volta egli riesce comunque a superare la crisi ed a riacquistare le energie. Suor Annie si occupò di Mons. Marengo durante la sue convalescenze. Di lui ricorda l'umiltà, lo spirito di preghiera e di obbedienza. "Non ho mai incontrato un uomo più semplice e felice". Durante i sei anni spesi al suo fianco, prendendosi cura di lui, Suor Annie non lo sentì mai parlar male di alcuno. Incoraggiava il prossimo, aveva parole di conforto per tutti e, laddove possibile, li aiutava. "Mons. Marengo sapeva come apprezzare gli altri: questo era uno dei motivi per cui egli fu così amato e rispettato". Di carattere semplice e riservato cercò sempre di evitare gli  onori della gloria, ma  numerosi furono i riconoscimenti per aver dedicato tutta la vita al servizio degli altri, come ad esempio quelli ricevuti in occasione dei festeggiamenti del suo 90° compleanno , nella missione di Rongkhon. 

Nel 1998 Mons. Marengo fu ricoverato più volte.  La causa principale dei suoi malesseri va ricercata nel dono inesauribile di se stesso durante i 75 anni di servizio ininterrotto nelle missioni del nord est dell'India. L'ultimo ricovero risale al 20 maggio: Mons. Marengo rimarrà in ospedale 70 giorni, durante i quali perderà peso ed appetito. Durante la degenza, accompagnato dalle sorelle che a turno lo vegliavano, Mons. Marengo era solito visitare gli altri ammalati, per confortarli e portare loro il perdono di Dio. Ancora due giorni prima di morire, trasportato su una sedia a rotelle, egli chiese ed ottenne di far visita agli ammalati. Anch'egli riceveva molte visite, sia di gente comune ,dai villaggi e dalle città, sia di vescovi del nord est dell'India che era solito interrogare desideroso di conoscere i progetti futuri delle diocesi indiane. Negli ultimi giorni di vita, Mons. Marengo fu allietato da alcune cassette registrate del Vangelo, che ascoltava per tutta la giornata,  appare molto stanco, ma sereno. Pregò per tutta la notte in italiano. La sorella che lo assisteva gli chiese se pensava che l'ora fosse giunta. Egli rispose in modo affermativo. La morte celebrale fu dichiarata alle 14.10 del 30 luglio 1998. Quando la notizia della dipartita si estese, molti tentarono di raggiungere l'ospedale per l'ultimo saluto. Messaggi di cordoglio giunsero da ogni parte del mondo. Commovente la lettera spedita ai nipoti delle Cecche Nuccio, Sina e Maria dal Fr. Joseph Puthenpurakal in cui tra l’altro annuncia che “ nel giorno della morte una donna in un villaggio molto lontano da Tura ha avuto un sogno. Ella vide il Vescovo tutto in bianco salire al cielo benedicendo da tutti  i due lati finchè non lo vedeva più. La notizia della morte del Vescovo non lo sapeva affatto. Il giorno seguente ella mise suo marito a Tura per vedere cosa si era capitato al Vescovo. Giungendo a Tura gli aspettava la triste notizia della scomparsa del Vescovo! Sono certo che Mons. Marengo è in cielo intercedendo per noi”   Quando la salma raggiunse la cattedrale di Tura per l’estremo saluto, alle 14 del 1° agosto, nelle aree circostanti si accalcavano circa 3000 persone. C'erano, tra l'altro, 150 preti e 250 suore, quasi tutti i vescovi del nord est dell'India e molti anche dall’estero.

Suor Jala fu chiamata a riassumere i suoi 75 anni di missione e servizio in India. Ricordò lo spirito del vescovo italiano, il suo amore per la gente e per l'India, le molte lingue, i dialetti che aveva imparato e che parlava correttamente, nonché il linguaggio universale dell'amore che lo aveva guidato per tutta la sua vita. Ricordò che Mons. Marengo era stato il padre fondatore di tre diocesi; il vescovo che mai era andato in pensione. In poche parole nella sua persona aveva preso corpo la filosofia e l’esempio di Don Bosco.

Profondo ed intenso il ricordo di  Mons. Mamalassery, suo successore nella diocesi di Tura: "Mons. Marengo è stato, al tempo stesso, un soldato di Cristo ed un santo".


 
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